mercoledì 6 gennaio 2010

"A Arz, Genestré e Castel...

...rìvan i Remagi" (traduzione letterale: a Arzo, Genestrerio e Castel San Pietro arrivano i Re Magi. Traduzione pragmatica: è il giorno dell'Epifania). Così riporta, sulla data di oggi, il mio calendario per l'anno 2010. Paese che vai, usanze che trovi; e qui il calendario in dialetto locale è un vero e proprio must. Quattro anni fa quando il mio (allora) capo entrò in ufficio urlando tutto contento "L'è arivà ul tacuin dal Mendrisiott!" e mi piantò sulla scrivania un opuscolo che avrebbe fatto la gioia di Umberto Bossi, mi dissi che sì, forse lavoravo insieme ad un leghista. Invece no. Al fascino del "tacuin" non resiste proprio nessuno. Non solo le famiglie di purosangue mo-mò (chiassesi, mendrisiensi e dirimpettai), ma anche gli insospettabili, anche quelli che risiedono nel Luganese, perfino famiglie perbene e distinte in cui accanto al sangue rossocrociato ne scorre di focosissimo e spagnoleggiante. Certo, questi sono tempi proficui, in cui anche in Italia si inizia a ricordare che il dialetto non è una deformazione dell'ortodossia linguistica ma un idioma a sé stante, e vedremo se davvero Sanremo accoglierà qualche testo "straniero". Ma qui non si tratta affatto della strenua difesa di un codice che rischia di scomparire; al contrario il dialetto è la lingua che il ticinese medio impara dai propri genitori, e che più avanti persevera ad utilizzare nella sua vita di adulto. Più di una persona - specie nelle zone del Locarnese e del Bellinzonese - mi ha confessato di avere imparato l'italiano solamente a sei anni e mezzo, una volta cominciata la scuola dell'obbligo. E ogni anno, aprendo la prima pagina del "tacuin", ripenso al colloquio di lavoro che mi ha portata a lavorare da queste parti: "E con le lingue come te la cavi?" mi chiesero. E io a spiegare che avevo studiato per un periodo in Francia, e che con l'inglese me la cavavo... Niente, il mio interlocutore scuoteva desolato la testa. "Cavoli - pensai - allora è vero che per lavorare in Svizzera bisogna per forza sapere il tedesco". Inaspettata giunse la replica del datore di lavoro: "Ma di dialetto neanche una parola?". Ora, finalmente, posso dire di essermi integrata alla perfezione; e se ancora non riesco a pronunciare correttamente nemmeno una frase di senso compiuto, posso almeno constatare di avere raggiunto un livello piuttosto buono nel "listening". Prova ne ho avuto la sera di Capodanno, in cui, aspettando ospiti ritardatari, sono riuscita a capire quasi tutto di quel che succedeva nella commedia dialettale trasmessa in prima serata dalla televisione locale. Perché sì, qui da tradizione il nuovo anno si inizia così. Ciumbia!

2 commenti:

  1. Al sarà mei che ta imparat una quai parola da dialett! Se no quand ta vet föra da cà, i ta spara dopo dü pass!

    Cmq la commedia dialettale è bellissima! Sempre meglio che le fiction, realizzate sia di qua che al di là della ramina...

    Bene, ho recuperato il tempo perso... aspetto la prossima puntata.

    E non tirare più in ballo la mia morosa che si monta la testa poi...

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  2. Aggiungeremo allora le lezioni di dialetto a quelle di sci!! ciao biondino, a breve prossima puntata!!

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