venerdì 22 gennaio 2010

Siamo a Posta

Una delle differenze più macroscopiche tra uno svizzero e un altro cittadino del mondo è il sentimento suscitato dal risuonare della parola "posta". Un italiano tratterrà a stento un moto di disgusto; uno svizzero sorriderà felice in preda a un'emozione quasi indescrivibile. La Posta, qui, non è semplicemente il servizio che traporta buste, pacchetti e cartoline da un paese all'altro. E' ciò che permette di tenersi informati, dato che i giornali vengono venduti quasi esclusivamente per abbonamento. E' il luogo dove si può comprare di tutto, dai francobolli, ai libri, ai cuscini per i voli in aereo. E poi, per molti, è un comodo mezzo per spostarsi da un posto all'altro. Non lasciatevi ingannare dalle apparenze: se state parlando con uno svizzero e improvvisamente lui svicola via biascicando "guarda, scusa, ti devo lasciare perché se no perdo la posta" non sta inventando una scusa fantasiosa per piantarvi in asso. E non vuole nemmeno dire che se non si troverà a casa nell'esatto istante in cui comparirà il postino perderà il diritto di avere accesso alle proprie lettere (io, la prima volta che mi è successo, pensavo proprio a questo. "come son fiscali, questi svizzeri", mi sono detta). No: in realtà intende dire "guarda, ti devo lasciare perché se no perdo la Posta", con la "p" maiuscola, perché proprio la Posta gestisce la principale compagnia di autobus, spesso l'unico mezzo di trasporto pubblico che unisca un paese all'altro. La Posta, dunque, è una presenza imprescindibile nella vita sociale di ogni cittadino confederato; e non sarà certo un caso che il suono del clacson della compagnia riprenda le prime note dell'ouverture di un'opera davvero svizzerissima, il Gugliemo Tell di Rossini. Che significa: la Posta per noi è qualcosa in cui identificarci, un mezzo per unirci, in tutti i sensi. Tanto che, per indicare qualcosa di assolutamente sicuro e poco problematico, i ticinesi hanno un detto: "non preoccuparti, va come una lettera alla Posta". Gli italiani usano invece preferibilmente un'espressione marinaresca "va tutto a gonfie vele". Sarà per questo che, inevitabilmente, tutti gli abbonamenti che faccio inviare al mio indirizzo in Italia finiscono per essere inglobati dall'...abisso del nulla?

mercoledì 6 gennaio 2010

"A Arz, Genestré e Castel...

...rìvan i Remagi" (traduzione letterale: a Arzo, Genestrerio e Castel San Pietro arrivano i Re Magi. Traduzione pragmatica: è il giorno dell'Epifania). Così riporta, sulla data di oggi, il mio calendario per l'anno 2010. Paese che vai, usanze che trovi; e qui il calendario in dialetto locale è un vero e proprio must. Quattro anni fa quando il mio (allora) capo entrò in ufficio urlando tutto contento "L'è arivà ul tacuin dal Mendrisiott!" e mi piantò sulla scrivania un opuscolo che avrebbe fatto la gioia di Umberto Bossi, mi dissi che sì, forse lavoravo insieme ad un leghista. Invece no. Al fascino del "tacuin" non resiste proprio nessuno. Non solo le famiglie di purosangue mo-mò (chiassesi, mendrisiensi e dirimpettai), ma anche gli insospettabili, anche quelli che risiedono nel Luganese, perfino famiglie perbene e distinte in cui accanto al sangue rossocrociato ne scorre di focosissimo e spagnoleggiante. Certo, questi sono tempi proficui, in cui anche in Italia si inizia a ricordare che il dialetto non è una deformazione dell'ortodossia linguistica ma un idioma a sé stante, e vedremo se davvero Sanremo accoglierà qualche testo "straniero". Ma qui non si tratta affatto della strenua difesa di un codice che rischia di scomparire; al contrario il dialetto è la lingua che il ticinese medio impara dai propri genitori, e che più avanti persevera ad utilizzare nella sua vita di adulto. Più di una persona - specie nelle zone del Locarnese e del Bellinzonese - mi ha confessato di avere imparato l'italiano solamente a sei anni e mezzo, una volta cominciata la scuola dell'obbligo. E ogni anno, aprendo la prima pagina del "tacuin", ripenso al colloquio di lavoro che mi ha portata a lavorare da queste parti: "E con le lingue come te la cavi?" mi chiesero. E io a spiegare che avevo studiato per un periodo in Francia, e che con l'inglese me la cavavo... Niente, il mio interlocutore scuoteva desolato la testa. "Cavoli - pensai - allora è vero che per lavorare in Svizzera bisogna per forza sapere il tedesco". Inaspettata giunse la replica del datore di lavoro: "Ma di dialetto neanche una parola?". Ora, finalmente, posso dire di essermi integrata alla perfezione; e se ancora non riesco a pronunciare correttamente nemmeno una frase di senso compiuto, posso almeno constatare di avere raggiunto un livello piuttosto buono nel "listening". Prova ne ho avuto la sera di Capodanno, in cui, aspettando ospiti ritardatari, sono riuscita a capire quasi tutto di quel che succedeva nella commedia dialettale trasmessa in prima serata dalla televisione locale. Perché sì, qui da tradizione il nuovo anno si inizia così. Ciumbia!