domenica 27 dicembre 2009

Raclette da passeggio


Nei giorni immediatamente vicini al Natale non si può proprio evitare di parlare di cibo. Svizzero, ovviamente, e nel senso più puro del termine. Sapete a cosa penso io istintivamente ogni volta che qualcuno nomina la Confederazione? A quelle tutine giallo-bucherellate che gli sciatori elvetici indossavano quando ero piccola, evidentemente fieri di ricordare a tutto il mondo che la loro è la patria dell'Emmental. E in effetti il cittadino rossocrociato medio nutre per il formaggio una squisita ammirazione. A suon del detto per cui, al termine di ogni pasto, "la bocca l'è mìa stracca se la sa mìa da vacca" (ok lo ammetto: non so una parola di dialetto. Ma comunque il senso è quello). In ogni menu gastronomico che si rispetti compaiono specialità a base di "zincarlìn" della Valle di Muggio, trionfi di groviera e degustazioni varie. Il visibilio, però, si raggiunge quando il piatto in questione prevede formaggio fuso. Provate a proporre a un ticinese una serata "al caseificio di Airolo per mangiare la fonduta" e vi ritroverete di fronte al ritratto più vero dell'entusiasmo. A Natale, però, il picco di gradimento viene raggiunto dalla "raclette", ovvero formaggio scaldato su una piastra nel quale si andranno poi ad affogare pezzi di pane e di patate. "La raclette non è certamente un fast food - leggo, informandomi, su un sito decisamente confederato* - ma un piatto per buongustai che conoscono l'arte di mangiare con calma e piacere". Ed è vero; personalmente posso confermare che una delle mie prime sedute di integrazione nel mondo al di qua del confine si consumò attorno a un tavolo su cui era servito l'odorosa specialità (io però mi limitai ad un'insalata). Eppure, nulla ferma uno svizzero, quando si parla di formaggio fuso: banchieri e uomini d'affari non possono certo permettersi di consumare pasti in tutta tranquillità, specie di questi tempi... Il mordi e fuggi è una necessità per tutti. Ma lo svizzero non si dà per vinto: ecco che a Zurigo, in un delizioso mercatino natalizio allestito all'interno della stazione, qualcuno si è attrezzato vendendo "raclette da passeggio". Un vassoietto di carta, una piastra dall'indimenticabile olezzo e fettine di pane pronte per essere tagliate, cosparse e distribuite con forchettina e sottaceti. In piedi, aspettando il treno, o passeggiando tra le bancarelle in una breve pausa pranzo, lo svizzero ha così la possibilità di gustarsi in tutta pace quel piatto tanto amato. Altro che pizzette e panini. "Lo facciamo solo nel periodo di Natale" mi spiegano a mo' di giustificazione mentre soffoco una battuta. E allora mi mordo la lingua e mi limito a sorridere sotto ai baffi. Perché si sa, a Natale siamo tutti più buoni.

* vedi: http://www.myswitzerland.com/it.cfm/scoprire_svizzera/mangiare_bere/it.cfm/offer-About_GourmetTravel-Recipes_BettyBossi-334293.html

mercoledì 9 dicembre 2009

Svizzeri si nasce o si diventa?

C'è un principio che realmente rende tutti gli uomini, di qualsiasi nazionalità essi siano, vicini ed uguali. Lo stesso che unisce specularmente in un'identica condizione di rassegnazione le donne di tutto il mondo (non fate mai l'errore di dire "no, mio marito non è così"). E' la legge dell'uomo e della tecnologia. E pressapoco recita così: qualsiasi oggetto nuovo - per quanto strampalato - esca sul mercato, l'uomo ne sarà irrimediabilmente attratto. Così ecco il coniuge rossocrociato aggirarsi per casa costantemente affiancato da *noto smartphone con mela bacata sul retro. Con annesse applicazioni. L'altro giorno, allora, mi sono cimentata nel seguente test: Qual è il tuo quoziente di svizzeritudine? Il risultato è stato un inaspettato 97%. Cosa che, non lo nego, mi ha messa in allarme: possibile che le mie radici si siano già cibate così tanto di rösti e gruvière? Mi sono messa a riflettere. Tanto più che, non molto tempo fa, qualcuno mi aveva detto: 'Ah ma dai, tu sei la parte italiana della coppia. Avrei scommesso che tu fossi svizzera e lui italiano'. Insomma, in barba a tutti i miei buoni propositi la patria di Heidi mi sta già contagiando. Ma quand'è che uno, davvero, si può dire svizzero? In fondo la Svizzera stessa è composta per la maggior parte da non-svizzeri. E non parlo solamente delle seconde, terze, quarte generazioni di immigrati. Proprio l'idea stessa di Confederazione, in fondo, non è che un agglomerato di piccoli popoli montanari differenti, che spesso, ancora oggi, non vogliono nemmeno avere nulla a che fare uno con l'altro. E allora? Il problema dev'essere sentito, tanto che poco più di un annetto fa il Museo d'arte di Lugano organizzò una grande esposizione dedicata proprio alla svizzeritudine. Si chiamava 'Enigma Helvetia', fu un successone e riuniva tutti i prodotti culturali della moderna Svizzera. Non solo arte - pochina, a dir la verità - ma anche maschere carnevalizie, orologi swatch e borse Freitag (non ho ben capito se in Italia siano riuscite a sfondare ma qui impazzano da anni. Nonostante siano fatte di teloni di camion, copertoni di biciclette ecc.). Come a dire: essere svizzero sembra facile, invece è un'arte da imparare, e da studiare. E allora, per il momento, posso ritenermi salva. Svizzeri si può diventare; ma nonostante l'apparenza ci vuole tempo. E - ma ne parleremo a tempo debito - lo svizzero è molto pignolo al riguardo. Tanto che, per ottenere la cittadinanza, non basta lasciar passare qualche anno. No: ci vuole addirittura un esame.